martedì 8 gennaio 2008

Italia: il paradiso degli immigrati. Intervista ad un egiziano che vive a Roma da 3 anni.

Attualmente il numero di immigrati presenti in Italia sfiora i quattro milioni di persone, metà delle quali provengono da paesi appartenenti alla stessa Unione Europea. La presenza straniera nel nostro paese, croce e delizia del sistema socio-economico italiano, divide l’opinione pubblica: i trapiantati forniscono un’importante nonché fondamentale apporto al sistema lavorativo italiano ma avanza, al contempo, l’allarme sicurezza. I recenti atti criminali compiuti per mano di immigrati e gli atteggiamenti xenofobi degli italiani verso gli stranieri sottolineano l’importanza di mettere a punto importanti strategie di controllo, da un lato, e di integrazione, dall’altro.
Ma la situazione attuale come viene vista dall’occhio di coloro che, emigrati dal proprio paese di origine, cercavano una nazione in cui vivere meglio? Proviamo a rispondere a questa domanda con le parole di un ragazzo egiziano (dall’italiano pressoché impeccabile), immigrato nella nostra capitale da circa 3 anni.
Come mai hai deciso di lasciare il tuo paese per trasferirti in Italia?
Perché se fossi rimasto in Egitto avrei dovuto fare obbligatoriamente il servizio militare, della durata di 3 anni.
E tu non vuoi prestare il servizio di leva?Si, lo voglio. Ma per il momento preferisco lavorare.
Qual era la tua attività in Egitto?Studiavo giurisprudenza all’Università.
Come si vive in Egitto?Bene, ma è un paese in cui la vita costa molto.
Con ciò che guadagni riesci a mandare qualche soldo a casa?Si, poco, ma riesco a mettere da parte qualcosa da inviare alla mia famiglia.
Come mai hai scelto Roma come città nella quale trasferirti?Avevo un contatto con una persona che mi ha offerto un posto di lavoro in una pizzeria.
Perché molti scelgono di emigrare in Italia?Secondo me perché si può fare quel che si vuole. Io, per esempio, volevo lavorare e qui lo posso fare.
Hai fatto nuove amicizie in questi tre anni?No, le persone con cui passo il tempo sono le stesse che conoscevo già prima di trasferirmi in Italia, i miei compaesani. Ho stretto amicizia con pochi, anzi pochissimi italiani.
Hai mai notato atteggiamenti razzisti nei tuoi confronti?Si, c’è stato qualcuno che ha avuto comportamenti poco amichevoli nei miei confronti, ma non per questo penso che gli italiani siano un popolo di razzisti.
Quindi non è per questo motivo che non hai fatto nuove conoscenze.No, preferisco la compagnia delle persone che, come me, hanno lasciato l’Egitto per trasferirsi in Italia.
Ti senti integrato nel contesto italiano?Non credo di essermi integrato appieno e la nostalgia di casa a volte è davvero tanta.
Cosa ti manca di più del tuo paese?La mia famiglia.
Progetti per il futuro?Al momento attuale voglio rimanere qui per lavorare, ma non ho ancora fatto progetti a lungo termine. Se mi dovessi stancare della vita che conduco qui penso che tornerei a casa.
Nonostante si sia dimostrato subito disposto a rilasciare l’intervista, è emerso un atteggiamento reticente, talvolta contraddittorio. Atteggiamento che è subito cambiato nel momento stesso in cui ho riposto taccuino e penna. Continuando a chiacchierare è emerso un fortissimo attaccamento verso il suo paese ed una forma di ostilità verso l’Italia, luogo in cui non si sente a casa, non si sente integrato. Relativamente agli ultimi fenomeni di violenza, da un lato, e di razzismo, dall’altro, non esprime una posizione estrema e afferma: “Non si può fare di tutta l’erba un fascio. Non ci sono italiani buoni e stranieri cattivi. Ci sono solamente persone che, indipendentemente dalla nazionalità e dalla provenienza, hanno comportamenti che un paese democratico non può assolutamente tollerare. Penso che gli immigrati non possano permettersi di avere atteggiamenti violenti o comunque scorretti all’interno di un paese che li ospita, ma penso anche, al tempo stesso, che occorra agire per dare avvio ad un processo di integrazione più efficace. È sicuramente vero che molti, come me del resto, finiscono col crearsi una sorta di mini-comunità all’interno del paese ospitante, per avvertire meno la nostalgia di casa e della famiglia, per continuare ad avere le stesse abitudini e consuetudini di quando si abitava in patria. Tuttavia, se riuscissimo a sentirci più accettati, se la gente ci guardasse senza diffidenza, potremmo riuscire a sentirci davvero parte integrante di un paese che non è il nostro. Penso che la soluzione, come sempre, si collochi alla metà esatta di due estremità opposte: occorre solamente trovare il modo migliore per venirsi incontro. E noi restiamo in attesa che la popolazione e le autorità italiane muovano il primo passo, mettendo a punto programmi di integrazione a tutto tondo.”

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