martedì 8 gennaio 2008
Il fenomeno Winx
Le sei fatine del Regno di Magix, al centro di un giro d'affari pari ad un miliardo di dollari, hanno incantato e continuano ad affascinare milioni di fans in tutto il mondo. Tv, cinema, web, cellulari, fumetti: non c'è settore dell'industria dell'intrattenimento che non sia stato contagiato dal fenomeno Winx. Dal 2004 ad oggi sono state prodotte 3 serie, l'ultima delle quali avrebbe visto le 6 esperte in arti magiche della scuola di Alfea conseguire il diploma di Fate Guardiane. In seguito al successo di pubblico riscosso, quella che doveva essere la trama dell'intero serial si è trasformata in un semplice prologo, data la volontà degli autori di cimentarsi nella produzione di una quarta (e chissà quante altre) serie, che andrà in onda tra poco più di un anno, dopo l'uscita del secondo film di animazione. Non si sa per quanto tempo ancora queste splendide fatine stregheranno il mondo con i loro folti capelli, gli abiti alla moda e le ali ma, a giudicare dai risultati raggiunti, le prospettive sembrano più che rosee.
USA: terra di forti contraddizioni. Produttività, prosperità mondiale e giustizia.
Da ben 90 anni l’economia statunitense traina il mondo. Stando a questo dato viene da chiedersi come abbiano fatto gli USA a divenire il primo PIL del pianeta, il quarto per abitanti. La risposta va ricercata innanzitutto nel forte consumismo presente all’interno dei paesi che ne fanno parte: la crescita è alta e l’economia gira grazie alla spesa delle famiglie (i 2/3 del PIL, infatti, dipendono dai consumi familiari).
L’alto livello di sviluppo raggiunto è strettamente legato alle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, all’assenza di corporazioni che ha aperto le porte alle liberalizzazioni e alla straordinaria capacità di lavoro dei cittadini.
Ma un passato tanto fulgido sembra stia per cedere il passo ad una contrazione dell’attività economica: gli esperti ipotizzano che nel 2008 l’economia statunitense subirà una brusca frenata.
Le ragioni di tale inversione di tendenza vanno ricercate in più eventi: il crollo della borsa americana tra il 2000 e il 2002 (periodo in cui l’indice NASDAQ è precipitato da 5.400 a 1.300 punti per via delle speculazioni degli anni ’90 intorno alle Dot-com, società di servizi informatici), l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 (l’unico attacco subito dagli USA all’interno del loro territorio, se si eccettua la distruzione della base marina di Pearl Harbor) e, più recentemente, la crisi dei mutui, che ha avuto pesanti ripercussioni su tutte le borse e i sistemi bancari mondiali.
A ciò si aggiunga che la produttività e la prosperità degli USA da record nascondono un’altra faccia della medaglia: quella degli oltre 35 milioni di persone (il 12,1% della popolazione) che nel 2006 hanno sofferto la fame, quella dei 12 milioni di clandestini e degli squilibri sociali. A pagare il conto delle sempre crescenti disuguaglianze è la classe media. Basti pensare che se nel 1980 lo stipendio di un manager era 40 volte superiore a quello del dipendente standard, nel 2002 tale divario ha raggiunto quota 435.
Un’altra grossa falla nel sistema americano va ricercata nell’assistenza sanitaria pubblica, che copre il 20% degli americani con Medicare (over 65) e Medicade (poverissimi). Su una popolazione di 302 milioni di abitanti, 47 milioni, ovvero un terzo dei lavoratori al di sotto dei 65 anni, non hanno assistenza. Attualmente la spesa sanitaria è pari al 16% del PIL e, se non fosse per lo strapotere delle case farmaceutiche e delle assicurazioni che bloccano le riforme, si riuscirebbe sicuramente a garantire un servizio di gran lunga migliore.
La ciliegina sulla torta è data da un’agghiacciante verità: il presidente Bush ha posto il veto per l’assistenza a 4 milioni di bambini poveri che, nel 2007, sarebbe ammontata a 7 miliardi… bazzecole per un paese che spende ogni mese 10 miliardi per la guerra in Iraq e in Afghanistan!
L’alto livello di sviluppo raggiunto è strettamente legato alle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, all’assenza di corporazioni che ha aperto le porte alle liberalizzazioni e alla straordinaria capacità di lavoro dei cittadini.
Ma un passato tanto fulgido sembra stia per cedere il passo ad una contrazione dell’attività economica: gli esperti ipotizzano che nel 2008 l’economia statunitense subirà una brusca frenata.
Le ragioni di tale inversione di tendenza vanno ricercate in più eventi: il crollo della borsa americana tra il 2000 e il 2002 (periodo in cui l’indice NASDAQ è precipitato da 5.400 a 1.300 punti per via delle speculazioni degli anni ’90 intorno alle Dot-com, società di servizi informatici), l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 (l’unico attacco subito dagli USA all’interno del loro territorio, se si eccettua la distruzione della base marina di Pearl Harbor) e, più recentemente, la crisi dei mutui, che ha avuto pesanti ripercussioni su tutte le borse e i sistemi bancari mondiali.
A ciò si aggiunga che la produttività e la prosperità degli USA da record nascondono un’altra faccia della medaglia: quella degli oltre 35 milioni di persone (il 12,1% della popolazione) che nel 2006 hanno sofferto la fame, quella dei 12 milioni di clandestini e degli squilibri sociali. A pagare il conto delle sempre crescenti disuguaglianze è la classe media. Basti pensare che se nel 1980 lo stipendio di un manager era 40 volte superiore a quello del dipendente standard, nel 2002 tale divario ha raggiunto quota 435.
Un’altra grossa falla nel sistema americano va ricercata nell’assistenza sanitaria pubblica, che copre il 20% degli americani con Medicare (over 65) e Medicade (poverissimi). Su una popolazione di 302 milioni di abitanti, 47 milioni, ovvero un terzo dei lavoratori al di sotto dei 65 anni, non hanno assistenza. Attualmente la spesa sanitaria è pari al 16% del PIL e, se non fosse per lo strapotere delle case farmaceutiche e delle assicurazioni che bloccano le riforme, si riuscirebbe sicuramente a garantire un servizio di gran lunga migliore.
La ciliegina sulla torta è data da un’agghiacciante verità: il presidente Bush ha posto il veto per l’assistenza a 4 milioni di bambini poveri che, nel 2007, sarebbe ammontata a 7 miliardi… bazzecole per un paese che spende ogni mese 10 miliardi per la guerra in Iraq e in Afghanistan!
Cina: potenza sempre più super. Il gigante giallo è il nuovo motore del mondo. Ma che ruolo avranno le sue tante contraddizioni?
Altra crescita record per la Cina nel 2007. La nuova potenza economica deve gran parte della sua fortuna all’apertura nei confronti del mercato globale (con l’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio alla fine del 2001). Le cifre che la interessano parlano chiaro: primo esportatore al mondo di prodotti high tech, seconda destinazione (dopo gli Stati Uniti) dei capitali mondiali, terzo PIL al mondo e terzo paese per investimenti in ricerca e sviluppo (dopo USA e Giappone). E ancora: conta su cento milioni di potenziali turisti, esporta in America programmi e didattica, incorona d’alloro le teste di più di quattro milioni di studenti universitari ogni anno.
Le economie dei paesi occidentali subiscono lo smacco dell’ingresso dei prodotti made in China all’interno dei loro mercati, mentre i consumatori ringraziano il gigante giallo di aver esportato disinflazione, fornendo una gamma infinita di prodotti a basso costo e costringendo i produttori occidentali a ridurre i prezzi.
La Cina, però, non è solamente una nazione ricca di risorse naturali, il secondo produttore al mondo di auto e camion, il paese che conta 200 milioni di redditi medio-alti, in cui 70 milioni di abitanti viaggiano on line sui propri pc, 200 milioni dispongono di tv via cavo e cellulari e si laureano 1.5000.000 ingegneri l’anno. Sull’altro piatto della bilancia occorre, infatti, mettere tante drammatiche realtà: soltanto poco più del 10% del suo territorio può essere coltivato, il clima prevalentemente monsonico determina la carenza di acqua, su un terzo del territorio cadono piogge acide, ogni anno muoiono per lo smog 750 mila persone, dieci delle città più inquinate del mondo sono cinesi e viene imposto l’aborto selettivo.
Per comprendere meglio le contraddizioni di questo colosso bastano pochi dati: il 17% dei cinesi è poverissimo (vive cioè con meno di 1 dollaro al giorno), 318 milioni vivono con meno di 2 dollari al giorno, 28 milioni sono disoccupati e non percepiscono alcuna forma di denaro dal governo di Pechino, 800 milioni non hanno diritto alla pensione e il numero di cinesi che emigrano è talmente elevato che la loro è considerata la più grande diaspora al mondo.
Ma quale sarà il destino di un paese (caratterizzato da tali contraddizioni) i cui ritmi di crescita si attestano al limite del potenziale della produzione e la cui economia è sostenuta esclusivamente dagli investimenti esteri?
Per vincere la sfida di rivestire il ruolo di nuova potenza egemone mondiale la Cina deve porsi importanti obiettivi, primi fra tutti il sostegno dei consumi privati interni e l’imposizione di un ritmo di crescita sostenibile, sia dal punto di vista umano che da quello ambientale.
Le economie dei paesi occidentali subiscono lo smacco dell’ingresso dei prodotti made in China all’interno dei loro mercati, mentre i consumatori ringraziano il gigante giallo di aver esportato disinflazione, fornendo una gamma infinita di prodotti a basso costo e costringendo i produttori occidentali a ridurre i prezzi.
La Cina, però, non è solamente una nazione ricca di risorse naturali, il secondo produttore al mondo di auto e camion, il paese che conta 200 milioni di redditi medio-alti, in cui 70 milioni di abitanti viaggiano on line sui propri pc, 200 milioni dispongono di tv via cavo e cellulari e si laureano 1.5000.000 ingegneri l’anno. Sull’altro piatto della bilancia occorre, infatti, mettere tante drammatiche realtà: soltanto poco più del 10% del suo territorio può essere coltivato, il clima prevalentemente monsonico determina la carenza di acqua, su un terzo del territorio cadono piogge acide, ogni anno muoiono per lo smog 750 mila persone, dieci delle città più inquinate del mondo sono cinesi e viene imposto l’aborto selettivo.
Per comprendere meglio le contraddizioni di questo colosso bastano pochi dati: il 17% dei cinesi è poverissimo (vive cioè con meno di 1 dollaro al giorno), 318 milioni vivono con meno di 2 dollari al giorno, 28 milioni sono disoccupati e non percepiscono alcuna forma di denaro dal governo di Pechino, 800 milioni non hanno diritto alla pensione e il numero di cinesi che emigrano è talmente elevato che la loro è considerata la più grande diaspora al mondo.
Ma quale sarà il destino di un paese (caratterizzato da tali contraddizioni) i cui ritmi di crescita si attestano al limite del potenziale della produzione e la cui economia è sostenuta esclusivamente dagli investimenti esteri?
Per vincere la sfida di rivestire il ruolo di nuova potenza egemone mondiale la Cina deve porsi importanti obiettivi, primi fra tutti il sostegno dei consumi privati interni e l’imposizione di un ritmo di crescita sostenibile, sia dal punto di vista umano che da quello ambientale.
L'Italia cresce meno dell'Eurozona, siamo sempre più un peso per l'Unione Europea. Quali le cause di tale arretratezza economica?
Per via di una serie di problemi che ci trasciniamo dietro da anni, l’Italia rappresenta l’ultima ruota del carro trainato dall’Unione Europea. Che fare? Abbattere il debito, ridurre la pressione fiscale, diminuire e qualificare la spesa pubblica (allineando la spesa primaria a quella dell’Unione Europea)?
Il Commissario Europeo Almunia è preoccupato della debolezza del prodotto interno lordo italiano e del livello del debito pubblico. A ciò si aggiunga che le aspettative sulla crescita 2008 previste in primavera si attestavano al +1,7%, ma in autunno sono diminuite fino al +1,4%. Tale panorama mette in luce una drammatica verità: la crescita italiana prevista per l’anno venturo sarà la più bassa di tutta la zona euro e tra le più basse di tutta l’Unione Europea.
Per poter dare avvio ad un reale periodo di crescita occorrerebbe avviare un’azione ramificata all’interno del nostro sistema economico: ridurre il deficit, puntare sui consumi interni, migliorare il sistema assistenziale e l’efficienza delle pubbliche amministrazioni, riformare le relazioni industriali a livello contrattuale, rilanciare i consumi, investire nell’istruzione, riformare scuola e università.
Ma prima di concentrarsi sui provvedimenti da prendere al fine di permettere alla nostra economia di risollevarsi, occorre focalizzare l’attenzione sulle cause che hanno determinato la situazione in cui versiamo oggi. Evasione fiscale, ritardo del S
ud, carenze nel sistema istruzione-formazione, scarsa competitività, pochi investimenti in ricerca e sviluppo, pesante cuneo fiscale: queste, purtroppo, le caratteristiche del nostro sistema economico. E in più occorrre rammentare che siamo il solo paese dell’Unione Europea che debba destinare il 5% del PIL al servizio del debito: ciò significa che ogni anno spendiamo 70 miliardi solamente per pagare gli interessi.
Ma da cosa dipende tutto ciò? Probabilmente la risposta andrebbe ricercata all’interno dei problemi strutturali che affliggono l’Italia. Le riforme strutturali sono estremamente importanti per consentire di migliorare la possibilità di procedere con la crescita. Fra il 1986 e il 2002 abbiamo assistito al succedersi di 32 riforme, le quali hanno modificato solo marginalmente il funzionamento dei sistemi di welfare, non intervenendo a livello strutturale.
Credo che la chiave di volta della questione stia proprio qui: occorre lavorare per migliorare il sistema partendo dalla sua base. Il primo investimento da fare dovrebbe essere quello di puntare sul capitale umano. Istruire, istruire, istruire. Conseguentemente offrire la possibilità reale di poter mettere il proprio sapere al servizio della nazione stessa, e dare così un brusco arresto al cosiddetto fenomeno della “fuga dei cervelli”. Dobbiamo prestare maggiore attenzione alle nostre potenzialità!
Il Commissario Europeo Almunia è preoccupato della debolezza del prodotto interno lordo italiano e del livello del debito pubblico. A ciò si aggiunga che le aspettative sulla crescita 2008 previste in primavera si attestavano al +1,7%, ma in autunno sono diminuite fino al +1,4%. Tale panorama mette in luce una drammatica verità: la crescita italiana prevista per l’anno venturo sarà la più bassa di tutta la zona euro e tra le più basse di tutta l’Unione Europea.
Per poter dare avvio ad un reale periodo di crescita occorrerebbe avviare un’azione ramificata all’interno del nostro sistema economico: ridurre il deficit, puntare sui consumi interni, migliorare il sistema assistenziale e l’efficienza delle pubbliche amministrazioni, riformare le relazioni industriali a livello contrattuale, rilanciare i consumi, investire nell’istruzione, riformare scuola e università.
Ma prima di concentrarsi sui provvedimenti da prendere al fine di permettere alla nostra economia di risollevarsi, occorre focalizzare l’attenzione sulle cause che hanno determinato la situazione in cui versiamo oggi. Evasione fiscale, ritardo del S
ud, carenze nel sistema istruzione-formazione, scarsa competitività, pochi investimenti in ricerca e sviluppo, pesante cuneo fiscale: queste, purtroppo, le caratteristiche del nostro sistema economico. E in più occorrre rammentare che siamo il solo paese dell’Unione Europea che debba destinare il 5% del PIL al servizio del debito: ciò significa che ogni anno spendiamo 70 miliardi solamente per pagare gli interessi.
Ma da cosa dipende tutto ciò? Probabilmente la risposta andrebbe ricercata all’interno dei problemi strutturali che affliggono l’Italia. Le riforme strutturali sono estremamente importanti per consentire di migliorare la possibilità di procedere con la crescita. Fra il 1986 e il 2002 abbiamo assistito al succedersi di 32 riforme, le quali hanno modificato solo marginalmente il funzionamento dei sistemi di welfare, non intervenendo a livello strutturale.
Credo che la chiave di volta della questione stia proprio qui: occorre lavorare per migliorare il sistema partendo dalla sua base. Il primo investimento da fare dovrebbe essere quello di puntare sul capitale umano. Istruire, istruire, istruire. Conseguentemente offrire la possibilità reale di poter mettere il proprio sapere al servizio della nazione stessa, e dare così un brusco arresto al cosiddetto fenomeno della “fuga dei cervelli”. Dobbiamo prestare maggiore attenzione alle nostre potenzialità!
Globalizzazione: sinonimo di progresso o di omologazione? Una panoramica sulla situazione attuale. E domani?
La globalizzazione, il leitmotiv dell’epoca che stiamo vivendo, permea di sé l’intero panorama attuale: dalla politica all’economia, dalla produzione ai commerci, agli scambi. Una grande eco che rimbalza da un angolo all’altro del cosmo e che sta rapidamente modificando consuetudini, metodi produttivi, relazioni internazionali. Quelli che un tempo potevano essere i problemi interni di uno stato o di una regione oltrepassano oggi confini geografici e politici. Ciò determina una serie di reazioni a catena, spesso destabilizzanti soprattutto a livello finanziario, difficili da arrestare.
Un impulso determinante a tale processo va ricercato nelle nuove scoperte tecnologiche e nel miglioramento dei trasporti.
I mercati finanziari sono più ravvicinati, il fenomeno dell’outsourcing (delocalizzazione dell’attività produttiva) interessa un numero sempre crescente di aziende, le culture e gli stili di vita di regioni distanti fra loro si sovrappongono: ecco il volto attuale della globalizzazione. Ma nel momento stesso in cui si corre il rischio di associare sempre più il termine globalizzazione a quello di omologazione, ecco emergere una nuova controtendenza, figlia della stessa globalizzazione, ma dal punto focale opposto: la rivalutazione del “local”. Grazie alle recenti applicazioni che il computer e l’informatica hanno avuto nel campo dell’informazione e della comunicazione è oggi possibile sottoporre all’attenzione mondiale questioni che, senza il massiccio utilizzo della rete Internet, sarebbero rimaste isolate. Tutto ciò determina la nascita di forme di aggregazione che coinvolgono persone o regioni fisicamente distanti ma accomunate dagli stessi problemi o dalle stesse caratteristiche.
A fronte di tale progresso e sviluppo, sta però divenendo sempre più netta la linea di demarcazione fra paesi ricchi e paesi poveri. Oggi non è più sufficiente mettere in atto una politica di assistenza e di aiuto nei confronti di quelli che vengono considerati i paesi in via di sviluppo. Non basta dotarli dei nuovi ritrovati informatici perché possano imboccare la strada che conduce al benessere, ma occorre investire sul capitale umano, dando avvio a processi di informazione e di educazione.
La globalizzazione porta oggi il mondo a parlare un’unica lingua, fatta di problemi comuni alla maggior parte dei paesi. Ed è proprio l’universalità delle questioni da risolvere che ci indica la strada da battere: occorre sensibilizzare tutti i popoli ai temi che occupano un ruolo primario all’interno dell’agenda globale: inquinamento, democrazia, pace.
Un impulso determinante a tale processo va ricercato nelle nuove scoperte tecnologiche e nel miglioramento dei trasporti.
I mercati finanziari sono più ravvicinati, il fenomeno dell’outsourcing (delocalizzazione dell’attività produttiva) interessa un numero sempre crescente di aziende, le culture e gli stili di vita di regioni distanti fra loro si sovrappongono: ecco il volto attuale della globalizzazione. Ma nel momento stesso in cui si corre il rischio di associare sempre più il termine globalizzazione a quello di omologazione, ecco emergere una nuova controtendenza, figlia della stessa globalizzazione, ma dal punto focale opposto: la rivalutazione del “local”. Grazie alle recenti applicazioni che il computer e l’informatica hanno avuto nel campo dell’informazione e della comunicazione è oggi possibile sottoporre all’attenzione mondiale questioni che, senza il massiccio utilizzo della rete Internet, sarebbero rimaste isolate. Tutto ciò determina la nascita di forme di aggregazione che coinvolgono persone o regioni fisicamente distanti ma accomunate dagli stessi problemi o dalle stesse caratteristiche.
A fronte di tale progresso e sviluppo, sta però divenendo sempre più netta la linea di demarcazione fra paesi ricchi e paesi poveri. Oggi non è più sufficiente mettere in atto una politica di assistenza e di aiuto nei confronti di quelli che vengono considerati i paesi in via di sviluppo. Non basta dotarli dei nuovi ritrovati informatici perché possano imboccare la strada che conduce al benessere, ma occorre investire sul capitale umano, dando avvio a processi di informazione e di educazione.
La globalizzazione porta oggi il mondo a parlare un’unica lingua, fatta di problemi comuni alla maggior parte dei paesi. Ed è proprio l’universalità delle questioni da risolvere che ci indica la strada da battere: occorre sensibilizzare tutti i popoli ai temi che occupano un ruolo primario all’interno dell’agenda globale: inquinamento, democrazia, pace.
Italia: il paradiso degli immigrati. Intervista ad un egiziano che vive a Roma da 3 anni.
Attualmente il numero di immigrati presenti in Italia sfiora i quattro milioni di persone, metà delle quali provengono da paesi appartenenti alla stessa Unione Europea. La presenza straniera nel nostro paese, croce e delizia del sistema socio-economico italiano, divide l’opinione pubblica: i trapiantati forniscono un’importante nonché fondamentale apporto al sistema lavorativo italiano ma avanza, al contempo, l’allarme sicurezza. I recenti atti criminali compiuti per mano di immigrati e gli atteggiamenti xenofobi degli italiani verso gli stranieri sottolineano l’importanza di mettere a punto importanti strategie di controllo, da un lato, e di integrazione, dall’altro.
Ma la situazione attuale come viene vista dall’occhio di coloro che, emigrati dal proprio paese di origine, cercavano una nazione in cui vivere meglio? Proviamo a rispondere a questa domanda con le parole di un ragazzo egiziano (dall’italiano pressoché impeccabile), immigrato nella nostra capitale da circa 3 anni.
Come mai hai deciso di lasciare il tuo paese per trasferirti in Italia?
Perché se fossi rimasto in Egitto avrei dovuto fare obbligatoriamente il servizio militare, della durata di 3 anni.
E tu non vuoi prestare il servizio di leva?Si, lo voglio. Ma per il momento preferisco lavorare.
Qual era la tua attività in Egitto?Studiavo giurisprudenza all’Università.
Come si vive in Egitto?Bene, ma è un paese in cui la vita costa molto.
Con ciò che guadagni riesci a mandare qualche soldo a casa?Si, poco, ma riesco a mettere da parte qualcosa da inviare alla mia famiglia.
Come mai hai scelto Roma come città nella quale trasferirti?Avevo un contatto con una persona che mi ha offerto un posto di lavoro in una pizzeria.
Perché molti scelgono di emigrare in Italia?Secondo me perché si può fare quel che si vuole. Io, per esempio, volevo lavorare e qui lo posso fare.
Hai fatto nuove amicizie in questi tre anni?No, le persone con cui passo il tempo sono le stesse che conoscevo già prima di trasferirmi in Italia, i miei compaesani. Ho stretto amicizia con pochi, anzi pochissimi italiani.
Hai mai notato atteggiamenti razzisti nei tuoi confronti?Si, c’è stato qualcuno che ha avuto comportamenti poco amichevoli nei miei confronti, ma non per questo penso che gli italiani siano un popolo di razzisti.
Quindi non è per questo motivo che non hai fatto nuove conoscenze.No, preferisco la compagnia delle persone che, come me, hanno lasciato l’Egitto per trasferirsi in Italia.
Ti senti integrato nel contesto italiano?Non credo di essermi integrato appieno e la nostalgia di casa a volte è davvero tanta.
Cosa ti manca di più del tuo paese?La mia famiglia.
Progetti per il futuro?Al momento attuale voglio rimanere qui per lavorare, ma non ho ancora fatto progetti a lungo termine. Se mi dovessi stancare della vita che conduco qui penso che tornerei a casa.
Nonostante si sia dimostrato subito disposto a rilasciare l’intervista, è emerso un atteggiamento reticente, talvolta contraddittorio. Atteggiamento che è subito cambiato nel momento stesso in cui ho riposto taccuino e penna. Continuando a chiacchierare è emerso un fortissimo attaccamento verso il suo paese ed una forma di ostilità verso l’Italia, luogo in cui non si sente a casa, non si sente integrato. Relativamente agli ultimi fenomeni di violenza, da un lato, e di razzismo, dall’altro, non esprime una posizione estrema e afferma: “Non si può fare di tutta l’erba un fascio. Non ci sono italiani buoni e stranieri cattivi. Ci sono solamente persone che, indipendentemente dalla nazionalità e dalla provenienza, hanno comportamenti che un paese democratico non può assolutamente tollerare. Penso che gli immigrati non possano permettersi di avere atteggiamenti violenti o comunque scorretti all’interno di un paese che li ospita, ma penso anche, al tempo stesso, che occorra agire per dare avvio ad un processo di integrazione più efficace. È sicuramente vero che molti, come me del resto, finiscono col crearsi una sorta di mini-comunità all’interno del paese ospitante, per avvertire meno la nostalgia di casa e della famiglia, per continuare ad avere le stesse abitudini e consuetudini di quando si abitava in patria. Tuttavia, se riuscissimo a sentirci più accettati, se la gente ci guardasse senza diffidenza, potremmo riuscire a sentirci davvero parte integrante di un paese che non è il nostro. Penso che la soluzione, come sempre, si collochi alla metà esatta di due estremità opposte: occorre solamente trovare il modo migliore per venirsi incontro. E noi restiamo in attesa che la popolazione e le autorità italiane muovano il primo passo, mettendo a punto programmi di integrazione a tutto tondo.”
Ma la situazione attuale come viene vista dall’occhio di coloro che, emigrati dal proprio paese di origine, cercavano una nazione in cui vivere meglio? Proviamo a rispondere a questa domanda con le parole di un ragazzo egiziano (dall’italiano pressoché impeccabile), immigrato nella nostra capitale da circa 3 anni.
Come mai hai deciso di lasciare il tuo paese per trasferirti in Italia?
Perché se fossi rimasto in Egitto avrei dovuto fare obbligatoriamente il servizio militare, della durata di 3 anni.
E tu non vuoi prestare il servizio di leva?Si, lo voglio. Ma per il momento preferisco lavorare.
Qual era la tua attività in Egitto?Studiavo giurisprudenza all’Università.
Come si vive in Egitto?Bene, ma è un paese in cui la vita costa molto.
Con ciò che guadagni riesci a mandare qualche soldo a casa?Si, poco, ma riesco a mettere da parte qualcosa da inviare alla mia famiglia.
Come mai hai scelto Roma come città nella quale trasferirti?Avevo un contatto con una persona che mi ha offerto un posto di lavoro in una pizzeria.
Perché molti scelgono di emigrare in Italia?Secondo me perché si può fare quel che si vuole. Io, per esempio, volevo lavorare e qui lo posso fare.
Hai fatto nuove amicizie in questi tre anni?No, le persone con cui passo il tempo sono le stesse che conoscevo già prima di trasferirmi in Italia, i miei compaesani. Ho stretto amicizia con pochi, anzi pochissimi italiani.
Hai mai notato atteggiamenti razzisti nei tuoi confronti?Si, c’è stato qualcuno che ha avuto comportamenti poco amichevoli nei miei confronti, ma non per questo penso che gli italiani siano un popolo di razzisti.
Quindi non è per questo motivo che non hai fatto nuove conoscenze.No, preferisco la compagnia delle persone che, come me, hanno lasciato l’Egitto per trasferirsi in Italia.
Ti senti integrato nel contesto italiano?Non credo di essermi integrato appieno e la nostalgia di casa a volte è davvero tanta.
Cosa ti manca di più del tuo paese?La mia famiglia.
Progetti per il futuro?Al momento attuale voglio rimanere qui per lavorare, ma non ho ancora fatto progetti a lungo termine. Se mi dovessi stancare della vita che conduco qui penso che tornerei a casa.
Nonostante si sia dimostrato subito disposto a rilasciare l’intervista, è emerso un atteggiamento reticente, talvolta contraddittorio. Atteggiamento che è subito cambiato nel momento stesso in cui ho riposto taccuino e penna. Continuando a chiacchierare è emerso un fortissimo attaccamento verso il suo paese ed una forma di ostilità verso l’Italia, luogo in cui non si sente a casa, non si sente integrato. Relativamente agli ultimi fenomeni di violenza, da un lato, e di razzismo, dall’altro, non esprime una posizione estrema e afferma: “Non si può fare di tutta l’erba un fascio. Non ci sono italiani buoni e stranieri cattivi. Ci sono solamente persone che, indipendentemente dalla nazionalità e dalla provenienza, hanno comportamenti che un paese democratico non può assolutamente tollerare. Penso che gli immigrati non possano permettersi di avere atteggiamenti violenti o comunque scorretti all’interno di un paese che li ospita, ma penso anche, al tempo stesso, che occorra agire per dare avvio ad un processo di integrazione più efficace. È sicuramente vero che molti, come me del resto, finiscono col crearsi una sorta di mini-comunità all’interno del paese ospitante, per avvertire meno la nostalgia di casa e della famiglia, per continuare ad avere le stesse abitudini e consuetudini di quando si abitava in patria. Tuttavia, se riuscissimo a sentirci più accettati, se la gente ci guardasse senza diffidenza, potremmo riuscire a sentirci davvero parte integrante di un paese che non è il nostro. Penso che la soluzione, come sempre, si collochi alla metà esatta di due estremità opposte: occorre solamente trovare il modo migliore per venirsi incontro. E noi restiamo in attesa che la popolazione e le autorità italiane muovano il primo passo, mettendo a punto programmi di integrazione a tutto tondo.”
Economia italiana: da dove cominciare? Malcontento e scetticismo aumentano: ci si sente sempre più poveri.
Pressione fiscale, debito pubblico, spesa statale, precariato, pensioni, sanità: questi i problemi che agitano la politica economica della nostra penisola. Tasti dolenti che contraddistinguono l’ormai nota realtà italiana, critiche che vengono instancabilmente mosse all’esecutivo di volta in volta protagonista sulla scena politica del belpaese.
Ma per quanto il risanamento dei conti pubblici sia un problema all’ordine del giorno, l’italiano medio è quotidianamente assillato dal terrore di non riuscire a sbarcare il lunario, dall’ipotesi sempre più reale di dover ricorrere a finanziamenti per far fronte perfino alle comuni spese giornaliere. Il cittadino italiano, fortemente sfiduciato nei confronti delle istituzioni, avverte un continuo disinteresse della classe dirigente verso i temi a lui realmente cari: salute, prezzi, lavoro, casa, scuola, sicurezza. E neppure i sostegni promessi dalla Finanziaria 2008 alle famiglie e alle persone più bisognose miglioreranno le condizioni di difficoltà in cui versano molti italiani.
Fin dall’introduzione della moneta unica europea, i cittadini hanno assistito impotenti alla progressiva diminuzione del potere d’acquisto reale dei salari e hanno puntato il dito contro l’azione dei Governi, gli unici potenzialmente capaci di controllare il livello del reddito nazionale e dell’occupazione. Accettata positivamente la sfida di entrare a far parte dell’Unione Europea, l’Italia non è tuttavia riuscita ad eguagliare gli standard dei maggiori paesi del continente: il risanamento del debito pubblico viene continuamente posticipato e la pesante pressione fiscale congiuntamente al livello netto dei salari (distante da quello lordo erogato) creano un diffuso malcontento.
Considerando utopistica l’idea di poter intervenire massicciamente ed efficacemente sulla miriade di problemi che costellano la realtà economica italiana, occorre che cittadini ed istituzioni affrontino insieme i problemi economici più scottanti. Pensare di poter risolvere le gravi questioni della nostra economia soprassedendo ai problemi pratici che milioni di italiani devono quotidianamente fronteggiare non consente però la loro definitiva risoluzione. Pur sapendo che il controllo dei prezzi è una misura estranea alla cultura economica moderna e liberista, occorre che le autorità si impegnino a vigilare sulle imprese, evitando che abusino della loro posizione nel fissare i prezzi.
I cittadini avvertono fortemente la necessità che la classe dirigente agisca in maniera tale da permettere loro di “riappropriarsi” del salario percepito. Questo l’obiettivo primario che ogni governo dovrebbe prefiggersi: consentire ai cittadini di poter spendere equamente i soldi guadagnati permettendo loro, in tal modo, di rinnovare la fiducia già espressa in sede elettorale, affinché ci possano essere i presupposti per lavorare ad un reale progresso economico del paese.
Ma per quanto il risanamento dei conti pubblici sia un problema all’ordine del giorno, l’italiano medio è quotidianamente assillato dal terrore di non riuscire a sbarcare il lunario, dall’ipotesi sempre più reale di dover ricorrere a finanziamenti per far fronte perfino alle comuni spese giornaliere. Il cittadino italiano, fortemente sfiduciato nei confronti delle istituzioni, avverte un continuo disinteresse della classe dirigente verso i temi a lui realmente cari: salute, prezzi, lavoro, casa, scuola, sicurezza. E neppure i sostegni promessi dalla Finanziaria 2008 alle famiglie e alle persone più bisognose miglioreranno le condizioni di difficoltà in cui versano molti italiani.
Fin dall’introduzione della moneta unica europea, i cittadini hanno assistito impotenti alla progressiva diminuzione del potere d’acquisto reale dei salari e hanno puntato il dito contro l’azione dei Governi, gli unici potenzialmente capaci di controllare il livello del reddito nazionale e dell’occupazione. Accettata positivamente la sfida di entrare a far parte dell’Unione Europea, l’Italia non è tuttavia riuscita ad eguagliare gli standard dei maggiori paesi del continente: il risanamento del debito pubblico viene continuamente posticipato e la pesante pressione fiscale congiuntamente al livello netto dei salari (distante da quello lordo erogato) creano un diffuso malcontento.
Considerando utopistica l’idea di poter intervenire massicciamente ed efficacemente sulla miriade di problemi che costellano la realtà economica italiana, occorre che cittadini ed istituzioni affrontino insieme i problemi economici più scottanti. Pensare di poter risolvere le gravi questioni della nostra economia soprassedendo ai problemi pratici che milioni di italiani devono quotidianamente fronteggiare non consente però la loro definitiva risoluzione. Pur sapendo che il controllo dei prezzi è una misura estranea alla cultura economica moderna e liberista, occorre che le autorità si impegnino a vigilare sulle imprese, evitando che abusino della loro posizione nel fissare i prezzi.
I cittadini avvertono fortemente la necessità che la classe dirigente agisca in maniera tale da permettere loro di “riappropriarsi” del salario percepito. Questo l’obiettivo primario che ogni governo dovrebbe prefiggersi: consentire ai cittadini di poter spendere equamente i soldi guadagnati permettendo loro, in tal modo, di rinnovare la fiducia già espressa in sede elettorale, affinché ci possano essere i presupposti per lavorare ad un reale progresso economico del paese.
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